di Daniele Capezzone

Ci sono almeno tre elementi da considerare verso il 4 marzo, chiunque (non) vinca.

1. Gli astenuti restano saldamente il primo partito (ben oltre il 30%). Dentro questa massa, c’è sicuramente (difficile da quantificare) una quota di elettori di sensibilità liberale, che difficilmente troveranno in extremis quell’offerta che hanno così a lungo rifiutato. Se penso al vasto mondo di “outsider”, partite Iva, imprese, professionisti, “aspirational voters” (una costituency thatcheriana di chi crede nel trinomio proprietà-risparmio-iniziativa privata), mi pare difficile capire come possano collocarsi.

2. Al di là di promesse a cui non credono nemmeno i rispettivi piazzisti, non è in campo una proposta complessiva “meno tasse-meno spesa-meno debito”. Tantissimi (bene!) hanno parlato di tagli fiscali; quasi nessuno di ritiro del pubblico come fattore di alleggerimento della spesa e anche di apertura del mercato; nessuno in modo credibile della montagna del debito.

3. Tra manovrina post-elettorale, clausole di salvaguardia (12 miliardi quest’anno e 19 il prossimo), 400 miliardi di titoli da piazzare, 70 miliardi annui di interessi sul debito, o il prossimo premier sarà un uomo di visione e convinzioni (ma non si vedono Reagan e Thatcher in circolazione), oppure è fatale che sarà prigioniero, come i predecessori, degli zero virgola. Un “gestore” chiamato a “sorvegliare” il declino italiano, in sostanziale adesione alle indicazioni del pilota automatico di Bruxelles. Di fatto, un paziente italiano ospedalizzato, anestetizzato, sedato.

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PNR