di Raffaello Morelli
Volendo riflettere sul come combattere i populismi senza isterilirsi nei vocalizzi accusatori, è impossibile trascurare la questione carenza dell’acqua, a Roma e non solo. Una questione che ha aspetti tecnici complessi e che però è resa molto urgente dalla cultura politica dissennata con cui per anni si è affrontato l’argomento gestione idrica.

Il referendum del 2011 si basò su due slogans secondo cui bastava rendere l’acqua pubblica per risolvere tutto. Gli slogans erano, “l’acqua bene da non privatizzare” e “impedire i profitti sull’acqua” (abrogare la parte della norma prodiana del 2006, secondo cui la tariffa idrica deve remunerare il capitale investito). Questa era l’impostazione seguita da quasi tutta la RAI e dal vasto schieramento cartaceo guidato dal Corriere della Sera. Eppure non corrispondeva alla realtà dei quesiti referendari, come in modo documentato (e mai smentito) argomentava negli spazi riservati sui mass media il “Comitato per l’Acqua, proprietà e controlli pubblici, gestione libera”, di cui ero Presidente. Il Comitato non si stancava di ripetere che siccome l’acqua era pubblica (all’epoca intorno al 95% dell’acqua era già distribuita da società a maggioranza pubblica), sarebbe stato un errore grave riunire alla proprietà anche la  gestione, evitando la questione vera dei controlli sulla distribuzione idrica oltre che quella degli investimenti. Se la distribuzione risulta inadeguata, dicevamo, non è perché la struttura pubblica è limitata, ma perché si è mostrata non in grado di svolgere le sue funzioni. Perciò il Comitato “Proprietà e controlli pubblici, gestione libera” definiva il referendum mistificatorio, ideologico e tale da aggravare il problema acqua.

La stragrande maggioranza di cittadini fu convinta da dati di fatto largamente falsi. E lo striminzito 51% raggiunto dall’abrogazione mise insieme populisti strutturali e fideisti speranzosi, dal PD a Forza Italia e Lega (dei quasi 26 milioni di voti abrogativi, intorno ai cinque milioni almeno provenivano dal centro destra). Ovviamente, dopo, la situazione reale non cambiò. I prezzi dell’acqua sono restati i più bassi dei grandi paesi europei e il servizio idrico resta quello per cui si spende assai di meno. In più, essendo l’acqua in mano pubblica e quindi la figura del  pubblico regolatore  sovrapponendosi a quella del pubblico proprietario, è molto problematico, in caso di servizi erogati poco e male violando le concessioni, effettuare davvero controlli e sanzioni. Si aggiunga che la oggettiva mancanza di investimenti adeguati ha già provocato una procedura di infrazione europea relativa agli impianti di depurazione con relativa condanna; che la manutenzione degli impianti è molto al di sotto del necessario; che  sono insufficienti i bacini di raccolta; che i rigurgiti populisti di politici parolai senza idee tengono basse le tariffe; che le casse dello Stato sono parecchio vuote. Era perciò evidente che presto sarebbe esploso il problema di chi avrebbe potuto fare gli investimenti necessari per affrontare davvero il problema idrico.

Passata la sbornia referendaria e iniziando ad emergere che i risultati referendari non stravolgevano l’impianto normativo esistente né risolvevano i problemi del settore, nel dicembre 2013 il Governo Letta affidò all’Autorità per l’energia elettrica ed il gas la funzione aggiuntiva di favorire i mercati concorrenziali anche nel sistema idrico (trasformandola così da AEEG in AEEGSI) mediante lo strumento delle tariffe. La cosa provocò la sollevazione dei sostenitori del referendum 2011, già indispettiti dal mancato realizzarsi della sognata palingenesi. Quindi, non appena l’AEEGSI attivò una modalità tariffaria dinamica (comprensiva del definire costi efficienti, del fissare una minima qualità contrattuale e le convenzioni per l’affidamento del servizio) capace di far sì che gli investimenti – nel 2011 al minimo storico – cominciassero molto lentamente a risollevarsi, i sostenitori del referendum ricorsero al Consiglio di Stato contro quella modalità tariffaria, innescando un’incertezza paralizzante. Tacciavano l’AEEGSI di avere reintrodotto, attraverso il conteggiare gli oneri finanziari, l’adeguata remunerazione del capitale, abrogata dal referendum.

Per fortuna, due mesi fa a metà primavera ‘17, il Consiglio di Stato ha confermato il metodo AEEGSI riattivando le procedure finanziare per gli investimenti. I ricorrenti avevano equivocato sul concetto di copertura integrale dei costi, confermato pure dal referendum, quasi potesse non comprendere un costo finanziario standard composto da tassi di mercato per attività prive di rischio e da un premio per la rischiosità degli investimenti nel settore idrico.

Ripercorsi gli avvenimenti, risulta chiaro che il razionamento idrico di Roma è l’emblema del fallimento dell’acqua pubblica e della retorica per cui l’acqua deve essere gratis o quasi. Lasciamo perdere le futili diatribe mediatiche sugli scontri in corso tra Regione, Comune di Roma e Comuni limitrofi al Lago di Bracciano. Il sistema idrico richiede una cura attiva e continua nei finanziamenti, nella gestione e nei controlli. I finanziamenti sono stati finora insufficienti (in Italia si impiegano circa 40 € a testa all’anno, nei paesi Europei quasi tre volte di più) ed è auspicabile che, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, crescano più velocemente, dato che nei prossimi anni occorreranno tanti miliardi di euro. La gestione richiede una più forte dedizione da parte del pubblico proprietario, sia con una maggiore cura dei Comuni a come operano effettivamente le società idriche di cui sono azionisti maggioritari da soli o con altri Comuni, sia con una forte attenzione dei cittadini a come funzionano i servizi idrici facendone un fulcro nel dare i giudizi elettorali. I controlli quotidiani sullo stato di funzionamento degli impianti devono diventare una pratica diffusa e abituale di tutte le Amministrazione locali, sfrondata dall’ottusa contrapposizione tra Stato e mercato e pungolata anche da cittadini sempre più consapevoli che non basta desiderare migliori condizioni di vita per essere liberi ma è indispensabile organizzarle nei fatti. Con buona pace dei populisti, governare non è enunciare desideri e partecipare non è presenziare senza il diritto e l’onere dello scegliere.

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PNR