di Silvia Ferrara

Immaginate di andare ad una conferenza di tre giorni. Il primo giorno, appena entrate, studiate la sala, analizzate chi già si è seduto, scegliete un posto, magari non a caso, e vi sedete. Più della metà di voi, il giorno dopo, ripeterà quasi nella stessa maniera l’azione e si siederà allo stesso posto. Perché? Non per abitudine- l’abitudine impiega ben più tempo per insediarsi. Il motivo è che la fatica del primo impatto è già stata spesa. Lo scanning cognitivo della stanza, delle persone, delle poltrone è già stato fatto. Sapete che lì va bene, non c’è pericolo. Con l’atto di ripetere si fissa un’azione allo scopo di renderla più efficace, fino a ritualizzarla (in chiave sacra o pagana, non ha importanza, v. la messa cristiana o un sonetto ardito di Belli). E’ una questione di accessibilità. Ripetere non solo giova (in senso lato), ma semplifica la vita.

Oggi mi è stato chiesto di scrivere di un qualsiasi argomento, libero, per questa newsletter. Ho pensato di improvvisare, e di scrivere di improvvisazione. Anche questa scelta non è improvvisata, perché è da qualche tempo che mi occupo del concetto di invenzione. Che cosa porta a una scintilla creativa? E’ possibile inventare qualcosa da zero, in totale assenza di input? L’improvvisazione sembra agli antipodi della ripetizione, perché presuppone totale libertà espressiva, senza imitazione, ma a pensarci bene, questo è vero solo in superficie.

Bach, Mozart, Beethoven erano maestri dell’improvvisazione, ma non dobbiamo pensare che le loro gare di virtuosismo creativo fossero esperimenti senza ratio. Dietro c’era un lavoro certosino di preparazione, uno schema da seguire, un canovaccio di base. E i loro canovacci erano le forme musicali salienti, come toccate, preludi, fughe. Pensiamo a Bach, grande improvvisatore, e alla struttura della sua fuga: un tema che si contrappone a una frase melodica eseguita da una voce diversa, in un abbraccio di ripetizioni e imitazioni.  Lo schema c’è sempre, però.

La manifattura dei tappeti (afgani e indiani, per es.) funziona su un principio non molto diverso: informazioni sui nodi e i colori si succedono secondo schemi numerici precisi, in computi di sequenze, spesso impartite a memoria, e in successioni di registri compositivi regolari. La variazione à schematica, e i tessitori (spesso donne e bambini) riducono le immagini da riprodurre in griglie numeriche da imparare a memoria, da comunicare durante la produzione con canti ritmici. Può esserci una connessione con i ritmi metrici della prima poesia (cantata) inventata dall’uomo, che sembra scandisse il lavoro di chi era impegnato nella tessitura.[1] Il ritmo della manifattura segue, quindi, il ritmo della musica—il che, di nuovo, non è molto diverso da quando corriamo con gli auricolari nelle orecchie.

Ma lo spazio per improvvisare allora dov’è? Sono stati fatti degli studi cognitivi sull’improvvisazione nel jazz,[2]  e pare che nei momenti di bassa auto-censura e di apertura al rischio, la corteccia mediale prefrontale si attivi: più ci si esprime liberamente e meno attiva è l’area laterale, invece, che regola il controllo e l’inibizione. In realtà anche questi musicisti jazz, sottoposti allo scan MRI, avevano memorizzato uno scheletro di accordo ed erano accompagnati da un quartetto di sottofondo. Le scoperte più belle hanno spesso un effetto domino: nel riscontrare attivazioni specifiche nel loro cervello musicale, si è visto che le attivazioni neuronali erano simili a quelle della fase REM del sonno. Come a dire che sogno e vera ispirazione sono fatti della stessa materia.

Se allora è vero che abbiamo sempre bisogno di schemi e ripetizioni, è forse come improvvisiamo sul canovaccio e sui ritmi regolari della nostra vita (il nodo di colore sbagliato, la nota inaspettata) che fa scattare la vera scintilla. La trance della creatività è negli interstizi dei binari dritti.

 

[1] Tuck, A. 2006. ‘Singing the Rug: Patterned Textiles and the Origins of Indo-European Metrical Poetry’ American Journal of Archaeology 110, no. 4: 539-550.
[2]https://web.archive.org/web/20160625073946/http://www.peabody.jhu.edu/past_issues/fall08/the_science_of_improv.html

Silvia Ferrara è Professore Associato di Civiltà Egee alla Sapienza, Università di Roma. Ha studiato all’University College, Londra e all’Università di Oxford, e dopo vari anni come ricercatrice in archeologia e linguistica a Oxford, ha deciso di tornare in Italia con il rientro dei cervelli intitolato a Rita Levi Montalcini.

 

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PNR