di Lucrezia Vaccarella

L’affabulazione di antichi maestri e la forza persuasiva delle pubbliche orazioni..Siamo ancora discepoli dei nostri antenati romani.

E’ un’epoca, la nostra in cui tutto è governato da strategie di comunicazione. Pubblico e privato, lavoro e tempo libero, gusto, apparenza, linguaggio, tutto nel nostro quotidiano si muove assecondando la necessità di interagire, trasmettere informazioni, persuadere e, non dimentichiamolo, sedurre.

La scelta del messaggio da trasmettere ad una molteplicità indistinta di persone o ad interlocutori individuati o individuali così come i mezzi per veicolarlo non possono essere lasciati all’ improvvisazione.

Tuttavia, da sempre la parola è il viatico comunicativo principale che, la storia insegna, nelle pubbliche orazioni può raggiungere il più alto livello di propagazione e di capacità persuasiva.

Aristotele è stato tra i primi teorizzatori dell ‘ars retorica ma i nostri illustri antenati romani ne hanno affinato l’attitudine partecipativa e la capacità di creare relazioni per giungere ad un afflato comune tra l’oratore e il consesso di uditori.

Perciò mi sono divertita a ripescare i discorsi di antichi maestri la cui capacità di affabulazione è rimasta inalterata ancora ai nostri giorni.

Vi ricordate il famoso “Apologo” di Menenio Agrippa? Risale al 494 a.c. , epoca in cui i Plebei si ribellarono alle prevaricazioni dei Patrizi, lasciarono Roma e si recarono a vivere sull’altura di Monte Sacro. Terre incolte, cibo e vino assenti dalle tavole dei ricchi, città indifesa in caso di guerra… insomma i patrizi non avrebbero potuto sopravvivere allo “sciopero” dei plebei. Toccò al senatore Menenio Agrippa, uomo rispettato anche dal volgo ribelle, il compito di persuaderlo a ritornare in città. Questi si avvalse dell’apologo, una favola allegorica con finalità spiccatamente educativa.

Disse così:”Una volta le braccia, le gambe, la bocca e i denti decisero di non lavorare piu’per lo stomaco, che si nutriva e restava in ozio. Smisero di lavorare; così lo stomaco restò vuoto. Dopo alcuni giorni, le gambe e le braccia si accorsero che non potevano più muoversi, tanto erano diventate fiacche. Allora compresero che anche lo stomaco lavorava ed. era propio lui a dar loro forza e vita, restituendo, in forma di sangue, quel cibo che essi gli avevano con fatica procurato”.

Ricorrendo a tale similitudine, si narra sia riuscito a convincere la plebe a tornare a Roma. L’episodio diede vita all’istituzione dei Tribuni della plebe con il compito di tutelarne le ragioni nei confronti dei nobili patrizi. Tuttora mi chiede quanto l’allegoria rispettasse la realtà: ho sempre pensato che il nobili patrizi avessero bisogno dei lavoratori più di quanto questi ne avessero di loro.

Ma, evidentemente, l’uso persuasivo della parola ha fatto leva sulla sfera razionale ed emotiva della popolazione ribelle che, all’evidenza, non aveva alcuna attitudine oratoria… e si è piegata. Scorrendo tra le pagine della storia di Roma mi è rimbalzato agli occhi il busto scultoreo di Marco Tullio Cicerone.

Non era un personaggio per il quale provassi particolare simpatia, anzi l’ho sempre trovato un po’ troppo rigido e. a tratti, saccente.
Era però uno strenuo difensore della repubblica che Catilina, cui era stato , sino a quel momento ( 63 a.c.), impedito di assumere la carica di console, intendeva rovesciare, ordendo a tal fine una congiura. Faceva leva sul popolo, cui aveva promesso importanti riforme e su nobili estromessi dalle stanze del potere. Non aveva fatto i conti con l’amante di un congiurato che ne aveva rivelato i piano sovversivi.

Per sventarne i propositi, Cicerone fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, decisione estrema con la quale il Senato attribuiva ai Consoli poteri straordinari per far fronte a situazioni di grave pericolo per la stabilità dello Stato.

Scampato ad un attentato dei congiurati, Cicerone convocò il Senato al cui cospetto formulò un portentoso atto di accusa contro Catilina, nel discorso noto come Prima Catilinaria. L’esordio è diretto, il tono è asciutto senza sbavature,m ma la forza evocativa delle parole è dirompente “Fino a che punto, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora questo tuo furore si prenderà gioco di noi? Fino a che punto la tua sfrenata audacia si spingerà? Non ti hanno sconvolto il presidio notturno del Palatino, le veglie notturne della città, il timore del  popolo, l’accorrere in massa di tutti gli uomini onesti, questo fortificatissimo luogo della seduta del senato, l’espressione del volto di questi? Non ti accorgi che i tuoi piani sono scoperti”.

Cicerone non lascia spazi per repliche; Roma tutta non tollera più la condotta abusiva folle e sfrenata di Catilina.

A tal punto è stato efficace il discorso di Cicerone che Catilina dovette fuggire da Roma per non tornarvi mai più fino alla definitiva sconfitta in battaglia.
Ma dobbiamo al talento letterario di William Shakespeare l’orazione pronunciata da Marcantonio dinanzi al corpo esanime di Giulio Cesare, avvolto in un lenzuolo, appena dopo l’aggressione mortale infertagli da Bruto e da Cassio. Il popolo ha appena ascoltato Bruto che ne ha rivendicato il ruolo di liberatore dalla schiavitù cui Cesare lo aveva assoggettato.

Il popolo ha espresso il suo plauso a Bruto che, certo di averne acquisito il favore, lo invita ad ascoltare le parole di Marcantonio. Sarà che lo associo al volto ed alla mimica di Marlon Brando, ma quel discorso ha una forza di suggestione che è rimasta inalterata nei secoli.  Marcantonio esalta la grandezza morale di Giulio Cesare, a tal punto elevata dall’avere questi redatto un testamento in favore dei Romani, facendo in modo, nel prosieguo del discorso, che Bruto e Cassio perdano la qualità di uomini d’onore che, all’apparenza, reiteratamente, come un refrain, egli stesso riconosce loro.

Romani, amici, miei compatrioti, vogliate darmi orecchio. Io sono qui per dare sepoltura a Cesare, non già a farne le lodi. Il male fatto sopravvive agli uomini, il bene è spesso con le loro ossa sepolto; e così sia anche di Cesare. V’ha detto il nobile Bruto che Cesare era uomo ambizioso di potere: se tale era, fu certo grave colpa, ed egli gravemente l’ha scontata. Qui, col consenso di Bruto e degli altri – ché Bruto è uom d’onore, come lo sono con lui gli altri..

Oh, amici, fosse stata mia intenzione eccitare le menti e i cuori vostri alla sollevazione ed alla rabbia, farei un torto a Bruto e un torto a Cassio, i quali
sono uomini d’onore, come tutti sapete. Non farò certo loro questo torto; Bruto dice ch’egli era ambizioso, e Bruto è certamente uom d’onore. Ha addotto a Roma molti prigionieri, Cesare, e il lor riscatto ha rimpinzato le casse dell’erario: sembrò questo in Cesare ambizione di potere? Quando i poveri han pianto, Cesare ha lacrimato: l’ambizione è fatta, credo, di più dura stoffa; ma Bruto dice ch’egli fu ambizioso, e Bruto è uom d’onore…”

Sappiamo tutti com’è andata a finire: Bruto e Cassio sono stati costretti a scappare, non più uomini d’onore, per essere poi sconfitti da Antonio e Ottaviano.

Forse Marcantonio non ha pronunciato quel discorso… ma Shakespeare ci ha fornito un esempio insuperato di utilizzo strategico della comunicazione verbale. Quanto vorrei nascesse un moderno Marcantonio… magari con il volto di Marlon Brando.. mi accontenterei anche di un Cicerone redivivo e persino di un populista d’altri tempi come Menenio Agrippa..

Quanto non vorrei più sentire la voce stridula di Beppe Grillo, lo strascico toscano del finto rottamatore , la vacuità insulsa del ” sottopanza “ grillino e il
greve silenzio della Sindaca insciente.

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PNR