di Pocah
Chiunque abbia almeno un figlio mi capirà al volo. Vivere con dei nativi digitali è dura, molto dura. Anche per chi, come me, alla comunicazione digitale ci si è dovuta abituare.
Il mio primo cellulare? A 35 anni, e non era uno smartphone, perché parliamo del 2000 d.C. Il primo smartphone era un Blackberry e per tanto tempo gli sono rimasta fedele, irriducibilmente fedele. Trovavo l’Phone un giocattolo poco professionale. Poi anche io sono entrata nel tunnel e ormai ne sono prigioniera.
I miei figli, anche per esigenze familiari, hanno iniziato molto presto, anche se non prestissimo: lo smartphone oggi è sicuramente il loro principale strumento di comunicazione, la loro finestra sul mondo.
Oggi anche io se ho bisogno di comunicare con loro spesso devo piegarmi, e dopo l’ennesimo quanto inutile tentativo di raggiungerli telefonicamente, mi rassegno ad usare whatsapp, perché ormai NON MI RISPONDONO PIU’!!

“Parlano” così, anche con gli amici. E non è per risparmiare minuti di conversazione… è proprio che sono abituati a messaggiarsi, o al massimo a mandarsi messaggi vocali. Ma quale è il problema ? Perché la comunicazione verbale non va più di moda? Non vogliono rischiare di essere interrotti? Non reggono il contraddittorio? Non riescono ad esprimersi usando più di 140 caratteri?

I vantaggi di una comunicazione siffatta sono pochi, ma ci sono, mentre lunga è la lista delle controindicazioni. Non voglio stare qui ad elencarle, lo sappiamo tutti quanto possa essere deleteria questa dipendenza digitale per lo sviluppo cognitivo e la crescita dei ragazzi.

Ma voglio spezzare anche una lancia a loro difesa. Noi che esempio gli stiamo dando? Io stessa quante volte mi faccio riprendere dai miei figli perché rispondo alle email o ai messaggi mentre siamo a tavola? Non sono giustificabile solo perché si tratta prevalentemente di comunicazioni di lavoro.

E’ vero che il loro linguaggio fatica ad arricchirsi, che la loro capacità di esprimersi rischia di essere limitata. Ma emoticon, meme, gif e selfie in fondo sono nuovi strumenti creativi di comunicazione. Sono l’evoluzione dei grafiti, dei murales e più banalmente, dei nostri diari scolastici. Chi come me è nato nella seconda metà degli anni 60 forse si ricorda come erano i nostri diari scolastici. Erano come delle bacheche social in fondo. C’era di tutto, a volte i compiti da fare a casa non riuscivamo nemmeno a trovare lo spazio per annotarli.

Comunque, non tutto il male viene per nuocere, di questo ne sono convinta. Non fossilizziamoci troppo e non facciamo i moralisti. Piuttosto, preoccupiamoci di imparare (noi) e di insegnare (ai nostri figli) come comunicare ANCHE in modo tradizionale, perché purtroppo o per fortuna nella vita per andare avanti non bastano gli #hashtag, nemmeno se di professione fai il social media manager.

A proposito di hashtag, non tutti sanno che questo “strumento” ha da poco festeggiato il suo 10mo anniversario su Twitter. Dopo essere stato introdotto nel 2007 su twitter per contrassegnare e ricercare gruppi o topic, oggi è ormai diffusamente utilizzato (e abusato) anche al di fuori di questa piattaforma per identificare e condividere opinioni, argomenti concetti, idee e slogan.

Qualche numero, tanto per darvi una idea:

– 23 Agosto 2007: #hashtag fa la sua comparsa su Twitter
– 2010: Instagram adotta #
– 2013: #l’hashtag sbarca anche su Facebook
– 125 milioni: hashtag usati ogni giorno su Twitter
– 40,7 milioni: maggior numero di volte in cui un hashtag (questo #AldubEBTamangPanahon ) è stato usato in un giorno
– 960 milioni: foto su Instagram taggate “love” nel 2016
– 11.4 milioni: volte in cui #MAGA (Make America Great Again, il più popolare hashtag della campagna elettorale di Trump) è stato usato nel 2016
– 68,04 milioni: i post di Instagram con #NYC, la città più taggata al mondo

Per concludere, una comunicazione di servizio:

Da oggi #PNR è anche su Twitter: Seguiteci e aiutateci a far diventare #PNR trending topic tutte le domeniche!

#PNR #PaganiniNonRipete

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PNR