di Benedetta Fiani

Negli ultimi venticinque anni sono nati almeno trenta nuovi stati, grazie soprattutto all’implosione dell’Unione Sovietica e della Repubblica Federale di Jugoslavia. Se alla nascita delle Nazioni Unite si contavano 59 paesi, con la fine della decolonizzazione e della guerra fredda, i paesi membri dell’organizzazione si sono moltiplicati fino ad arrivare ad un totale di 193.

La questione è più che mai attuale, alla luce delle spinte indipendentiste che scuotono mezzo mondo: il Kurdistan iracheno ha votato il 25 settembre l’indipendenza provocando forti tensioni con il governo di Bagdad; la Catalogna ha nuovamente votato per tagliare i ponti con Madrid; la Scozia vorrebbe sfruttare la Brexit per cercare la possibilità di una nuova consultazione referendaria; il Québec è ben lungi dal rassegnarsi ad un destino canadese; a Hong Kong c’è un movimento indipendentista, mentre il Tibet e lo Xinjiang sarebbero felici di dire addio a Pechino.

Ognuno è un caso a sé, è il frutto di una storia politica, di incomprensioni, di errori, ma in fondo è sempre la storia di un profondo desiderio di autodeterminazione, un sentimento nazionale che dal XIX secolo in poi non si è fermato e continua a rivendicare il diritto di mettere fine a matrimoni non sempre felici.

La domanda attorno cui ruota il dibattito è: se la maggioranza degli abitanti di un determinato territorio vuole separarsi dalle autorità centrali, può farlo legittimamente? Il diritto a separarsi è legale? Il diritto internazionale è uno spazio dai contorni piuttosto incerti: fissa dei paletti che sono tutti molto bravi ad aggirare, ma di base bisogna dire che non esiste alcun diritto alla secessione e che il diritto di autodeterminazione non funziona proprio come ce lo immaginiamo.

Infatti, se da una parte il principio dell’inviolabilità dei confini è sacrosanto, dall’altra non si può ignorare il diritto di autodeterminazione dei popoli. Cosa succede se la popolazione di un pezzo di territorio parla di secessione e vota un referendum per l’indipendenza?  Il punto è che nessuno, ma proprio nessuno, sostiene che esista un diritto alla secessione nelle norme internazionali. Il punto di massima tolleranza è l’autodeterminazione esterna, ossia l’indipendenza da domini coloniali. Disposizione che esclude di fatto tutte le rivendicazioni sopracitate da uno spalleggiamento internazionale in termini legali.

Sì, ma il Kosovo? Quando nel 2008 i kosovari si proclamarono indipendenti, il loro stato venne immediatamente riconosciuto da diversi paesi, ma non da tutti, non dalla Russia ad esempio, la quale invece, in piena solitudine ha riconosciuto come indipendenti le regioni caucasiche dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, a seguito della guerra con la Georgia.

Se sembra tutto molto confuso è perché il diritto internazionale non stabilisce le regole, né i passaggi per l’indipendenza di uno stato, ma ha dimostrato una cosa: che gli stati, al di fuori del diritto internazionale, possono muoversi praticamente come vogliono, facendo solo attenzione a non sbilanciare troppo gli equilibri di potenza.

In qualsiasi situazione caratterizzata da problemi di tipo identitario c’è una forte tensione tra l’espressione democratica dei popoli e le regole (in primis) costituzionali che proteggono lo stato centrale, ecco perché senza la politica e il diritto, l’indipendenza è praticamente impossibile da raggiungere.

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