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Made in ChinaRomeo Orlandi#PNR65

Se il Giappone presenta la più alta densità mondiale di robot, nessuno si sorprende. Con una popolazione anziana e rigide barriere all’immigrazione non ha potuto far altro che sviluppare per primo un’industria nazionale all’avanguardia, con capacità di intervenire sostanzialmente nella creazione di valore.  Le immagini delle linee di montaggio giapponesi – lean production, zero defects, just in time – sono l’ultimo anello, visuale in questo caso, di decenni di impegno per alleviare o sostituire la fatica umana.

Le Tigri asiatiche (3 delle 4, Sud Corea, Taiwan Singapore, non Hong Kong ormai completamente de-industrializzata) hanno seguito questo percorso, seppur con minore intensità. Le necessità di competere sui costi, di sostituire una manodopera talvolta rivendicativa, di specializzarsi su lavorazioni a maggiore valore aggiunto, hanno imposto l’adozione di molti versanti del modello giapponese.

La vera novità riguarda l’adozione della robotica e dell’AI in Cina, un paese a prima vista popoloso e con una riserva inesauribile di contadini da trasferire nelle città per lavorare nelle fabbriche e nei cantieri edili. In realtà il paese presenta programmi molto ambiziosi che valicano la salvaguardia della manodopera. Il piano di Xi Jin Ping, Made in China 2025, mira a una veloce sofisticazione dell’impianto produttivo del paese. L’ambizione è di andare oltre la nozione di China factory of the world. La sconfitta del sottosviluppo è ormai acquisita e il Dragone vuole lasciarsi alle spalle i record nella produzione di vetro, acciaio e calzature. Ora ambisce a un assetto più sofisticato e la robotica, l’informatica, l’AI ne sono parte integrante. La manodopera inizia a scarseggiare anche in Cina (per la politica del foglio unico). Bisogna aumentare la produttività prima ancora che la produzione e se qualche lavoratore perderà l’occupazione, l’output dei robot sarà in grado di aiutarlo.

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PNR