di Raffaello Morelli

Il dibattito elettorale verte sullo scontro di promesse tra liste  coalizzate o no, e magari sui giudizi circa la legge usata (165/2017). Non ci si chiede quale meccanismo abbia il cittadino per manifestare nel voto la sua distanza dalle proposte in gara nonché la sua volontà di scegliere lui stesso direttamente il rappresentante parlamentare. Invece è il tema di maggior rilievo civile.

Per due motivi. Uno è che la 165/2017, novità dal ‘48, non lega il voto allo scegliere un simbolo: nella parte uninominale della scheda, sia al Senato che alla Camera, spicca il nome del candidato  e non c’è un simbolo di riferimento. Tant’è che il candidato accetta la candidatura senza far cenno alla lista per cui si candida e dunque non assume nessun obbligo verso nessuno. Il secondo motivo è che nell’uninominale il seggio di quel collegio viene assegnato direttamente dai voti ricevuti.

I due motivi congiunti fan sì che all’uninominale il votare un candidato può derivare –  nel caso l’elettore lo voglia – dalle caratteristiche dei candidati, dalla credibilità acquisita e dal potenziale appoggio in Parlamento ai temi preferiti dall’elettore. Non è prevista  l’appartenenza ad un simbolo partitico né ad un gruppo parlamentare. Ciò si allinea all’art. 67 della Costituzione (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”), che è il cuore del sistema rappresentativo, poiché si affida alle valutazioni critiche di ciascuno degli eletti e non agli ordini di corpi intermedi. Pertanto, l’esercitare il voto solo all’uninominale e non direttamente al plurinominale (specie se quel candidato non  vi figura), è il comportamento più efficace dei cittadini per rimarcare la sovranità nel votare e auspicare leggi per renderla più praticabile.

Al riguardo si fanno due obiezioni. Che il voto nell’uninominale viene attribuito ai simboli a sostegno del candidato e che , quando ciò riguarda più liste, è favorita la lista più grossa cui spetta la quota più alta. Ambedue le obiezioni non toccano le ragioni per votare solo all’uninominale. La prima perché il meccanismo di legge non muta il fatto che il non votare un simbolo significa  liberarsi per quanto possibile dalle promesse teoriche dei vari simboli. Votare solo il candidato preferito all’uninominale (molto più dell’annullare la scheda o votare bianco) mette al centro la libera sovranità del cittadino. Oltretutto, è indelebile l’aver votato solo all’uninominale. E  dunque si avvia un percorso  che da più peso ai cittadini. La seconda obiezione verte sulla preoccupazione, più che sul voto circoscritto, di sminuire la centralità dei simboli lista (come se la democrazia richiedesse corsie prefissate). Garantiscono il miglior esprimersi del cittadino, non i partitini satelliti bensì i confronti su idee e progetti di governo spinti da leggi pensate non per distribuire il potere ma per   favorire la scelta degli indirizzi da attuare e da verificare. Cosa che la 165/2017 non fa e di cui il votare solo all’uninominale avvia la pratica.

In realtà, la ragione profonda del fare obiezioni al votare il 4 marzo solo all’uninominale, non sta negli aspetti tecnici  ma tocca proprio la  finalità del consentire al cittadino di esprimere meglio la propria sovranità. Al fondo le obiezioni derivano dal ritenere che una legge elettorale abbia un fine puramente meccanico. Da un lato le offerte politiche delle liste simbolo, dall’altro i cittadini  considerati unità tutte uguali e non individui tutti diversi; la legge stabilisce  come contare i voti dei cittadini per scegliere tra le offerte.  Per questo gli obiettori sono spesso politologi e capi partito alla ricerca nel mondo di modelli di legge che funzionino bene a prescindere dalle caratteristiche delle società  cui sono applicati. Il che è già una pretesa distorta, perché trascura un aspetto decisivo del rappresentare, la diversità delle effettive condizioni socio culturali maturate della vita di relazione. Un altro aspetto importante del rappresentare è trascurato dalla 165/2017,  che, conteggiando in modo meccanico i voti sui simboli, comprime quasi del tutto la scelta diretta dei parlamentari in base alle specifiche caratteristiche individuali e di comportamento politico (in pratica i parlamentari devono avere il placet del simbolo). Infatti  nei plurinominali (2/3 del Parlamento) le liste sono rigide secondo l’ordine stabilito dal partito e negli uninominali si spinge perché  il voto sia dato ad un candidato sulla base esclusiva dei simboli che lo hanno presentato. In conclusione, quello che disturba nel votare solo all’uninominale è che indica al cittadino come sfruttare la limitata possibilità insita nella 165/2017  di esprimere la propria sovranità scegliendo in base alle caratteristiche dei candidati e non in base ai simboli. In altre parole la possibilità di potenziare l’art. 67 della Costituzione.

In fin dei conti, la scelta del votare solo all’uninominale è un episodio della continua battaglia tra concepire la  convivenza come fondata su cittadini diversi (che ne fissano le regole e ne giudicano le applicazioni) oppure come qualcosa modellato dall’oligarchia dei detentori del potere a vario titolo (censo, ideologia, religione, classe, casta militare) relegando i cittadini a sudditi indistinti. Già questo basterebbe per volere un impegno liberale, cioè ben distinto dai conservatori (che del cambiamento propongono un’idea asfittica ed elitaria) e dai socialisti (che sono presi emozionalmente dal dover essere collettivo). In più , la politica non finisce con il 4 marzo. E per i liberali prepararsi al dopo, significa far crescere il peso del cittadino nelle decisioni. A cominciare da una nuova legge elettorale che, liberata dalle manipolazioni, renda praticabile un rapido ritorno al giudizio delle urne.

 

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PNR