La Stampa, 28 settembre 2017

Vogliamo davvero eliminare i baronati che soffocano le Università e più in generale la vita pubblica e anche privata del nostro Paese? La risposta dovrebbe essere positiva. I fatti però ci raccontano tutta un’altra storia, che si ripete.

Almeno in una parte dei cittadini la volontà di cambiare sembra non esserci proprio. Non nascondiamoci. Le ragioni di questa propensione alle baronie sono molteplici e non certo nuove.

I) Antropologiche e culturali. Le clientele esistono sin dai tempi dei romani. Il cliente è un cittadino libero che però dipende per ragioni economiche o di interesse da un patronus al quale fornisce devozione e servigi in cambio di assistenza e protezione. Così, nelle Università italiane i baronati esistono da sempre. In passato hanno funzionato. Era un mondo molto diverso che dava al sapere e alle competenze significati differenti. All’Università ci andavano in pochi, spesso privilegiati. Un docente si attorniava di pochi bravi discepoli che prima o poi lo avrebbero sostituito. La qualità degli assistenti era ragione di vanto. Non è più così. Con la diffusione del sapere e la massificazione degli studi superiori è aumentato il numero dei docenti e quindi dei pretendenti alla spartizione del potere. È perciò, prevalsa la logica della mediocrità per meglio preservare il dominio del barone. È la stessa logica della politica di oggi.

II) La burocrazia su cui poggia l’Università e più in generale la pubblica amministrazione riflette la propensione culturale dei cittadini alla clientela che cerca di nasconderla attraverso la dottrina dell’eguaglianza (non solo nei diritti) e del merito (solo conformista), negando quello della libertà e della responsabilità di ogni cittadino.

III) Qualsiasi proposta di cambiamento, seppure importata dalla cultura anglosassone, finisce per incagliarsinella ragnatela di norme ridondanti e principi confusi che la nostra burocrazia, attraverso le solite clientele, costruisce a sua difesa. Metodi di valutazione, concorsi nazionali, e tutto ciò che è stato escogitato durante gli anni, vengono facilmente aggirati proprio per rispondere alla tradizione della cultura baronale. Finché non interviene la magistratura, cioè il diritto penale, che aiuta a riempire i fatti di cronaca, ma spesso non rende giustizia e soprattutto non risolve i problemi. Per quelli occorre il diritto civile.

Come fare quindi? Nel tempo sono prevalse due tendenze. Quella idealista e storicista che insegue disperatamente il perfetto modello meritocratico affidandosi a soggetti super partes. Purtroppo, come stiamo sperimentando, fallisce costantemente perché resta prigioniera della burocrazia. Rimane la seconda, quella della libertà individuale che affida al cittadino il diritto di scegliere responsabilmente rispetto alla propria valutazione. Questo approccio che è generalmente rifiutato perché emancipa l’individuo, cioè lo libera dalla logica clientelare, si traduce in pratica con l’eliminazione di qualsiasi concorso e la libertà di ogni ateneo di assumere come crede e chi ritiene funzionale ai propri progetti, esattamente come in un’impresa privata. Così sono la produttività e la qualità ad attirare i finanziamenti pubblici e privati, gli insegnanti e gli studenti più preparati e motivati.

L’abolizione di qualsiasi forma di concorso che dovrebbe essere estesa anche alla pubblica amministrazionedove restano logiche clientelari ben peggiori di quelle universitarie, implica una riformulazione dello stato giuridico degli atenei a cominciare dall’abolizione del valore legale del titolo di studio. Chi ritiene che la proposta di abolire i concorsi sia impossibile vuole evidentemente conservare un modello di società che favorisce la burocrazia rispetto al cittadino.
Questo vale anche per chi eviterà di affrontare la questione nella prossima tornata elettorale. Anche questa dei concorsi è una liberalizzazione.

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PNR