di Pietro Paganini, La Stampa
31 agosto 2017

Una nuova didattica può favorire la creazione di posti di lavoro e quindi diminuire quelle diseguaglianze che l’avvento dei robot rischia di creare? Le macchine e la progressiva automazione delle attività umane semplificano e migliorano la nostra vita. Ci resta però il dubbio, ancora irrisolto, se la tecnologia distruggerà l’occupazione e favorirà ulteriormente le diseguaglianze, spingendoci ad immaginare un mondo senza lavoro e a ripensare – se ne saremo capaci – il welfare, o se creerà nuove mansioni grazie all’ educazione e all’innata propensione dell’uomo alla curiosità e alla intraprendenza. È una domanda a cui non siamo ancora in grado di dare una risposta definitiva, come è giusto che sia.

Possiamo però rispondere per tentativi, cioè attraverso la sperimentazione che il metodo scientifico ci suggerisce. Prima di tutto è necessario coltivare un approccio complessivo integrando tre settori che fino ad oggi abbiamo cautamente distinto:

  1. l’innovazione e lo sviluppo tecnologico, incluse le politiche industriali;
  2. il lavoro e il welfare;
  3. la scuola e più in generale l’ educazione.

Un programma di governo, in vista delle prossime elezioni, dovrebbe fornirci se non una risposta definitiva, che come abbiamo visto non è necessaria, almeno la dimostrazione che la politica ha capito il problema e vuole affrontarlo in modo sistematico. Ho paura che resteremo delusi. Per questa volta tralasciamo tecnologia e lavoro/welfare e soffermiamoci sulla scuola. È da diversi anni che chiediamo una riforma che per una volta non si limiti alla struttura burocratica e sindacale o ai timidi cambiamenti dei processi organizzativi. Deve essere cambiata la didattica. Lo si doveva fare già da tempo per rispondere alle nostre modalità di apprendimento che sono in evidente contrasto con la didattica attuale. Lo si deve fare oggi più che mai per rispondere alle profonde trasformazioni del mercato del lavoro che siamo chiamati ad affrontare.

Già l’italiana Maria Montessori aveva proposto una didattica diversa – ormai un secolo fa – così come fece Rudolf Steiner, e altri dopo di loro. Della Montessori sappiamo che ha avuto più successo all’ estero che qui da noi.
Il suo metodo, che mette il bambino al centro della scuola, si scontra con l’idea più conservatrice secondo la quale siamo scatole vuote deputate ad assorbire le conoscenze che ci vengono trasmesse. Il bambino per la Montessori è invece un curioso, un creativo e un intraprendente che impara affrontando e risolvendo autonomamente i problemi che incontra, giorno dopo giorno. La scuola non dovrebbe limitarsi a trasferirgli conoscenze, ma aiutarlo a coltivarle e a produrne di nuove. Questo approccio, che è la base di metodi di apprendimento contemporanei, è refrattario all’apparato burocratico di coloro che negano il cambiamento e la sperimentazione.

Già il presidente Luigi Einaudi, pur partendo da presupposti diversi, denunciava il pericolo del valore legale del titolo di studio quale strumento nelle mani dello Stato e della gerarchia ministeriale per inibire la libertà di pensiero e di iniziativa. Se vogliamo provare ad abbozzare una risposta alla nostra domanda dobbiamo allora partire proprio da qui: abolire il valore legale del titolo e promuovere una cultura della scuola propensa al confronto e al pluralismo. Così le scuole saranno libere e invogliate a proporre una didattica diversa e libera dai dettami di chi sta rinchiuso in un ministero a Roma. La politica fa spallucce, sostenendo che i problemi sono altri.

In Finlandia è stato appena approvato un Piano, il Phenomenal Education (Phenomenal Based Learning) che trasforma profondamente la didattica abolendo di fatto le singole discipline e introducendo un approccio olistico, multidisciplinare e intergenerazionale. Questo piano nazionale è il frutto di anni di sperimentazione che hanno coinvolto liberamente le scuole del Paese.

Questi tentativi ci sono anche da noi, seppure intimiditi dalle regole dello Stato centrale. Se, come ha finalmente scoperto il ministro Fedeli, quella che viviamo è l’età della conoscenza e della creatività, non possiamo accontentarci di ridurre il percorso scolastico lasciando intatta la didattica attuale. Dobbiamo invece promuovere una didattica che invogli insegnanti, studenti, imprenditori e lavoratori a sperimentare e produrre nuove conoscenze, proprio attraverso il costante confronto con i problemi che il mondo ci pone. Oggi riceviamo conoscenze disciplinari su come altri hanno risolto problemi. Dobbiamo invece mettere i nostri ragazzi nelle condizioni di essere loro a risolvere questi problemi. Auguriamoci che finalmente la politica provi ad affrontare seriamente questa domanda cruciale. Di fatto riguarda il nostro futuro, cioè la nostra maggiore o minore libertà e il nostro maggiore o minore benessere.

La Stampa_31_08_2017

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PNR