Per una volta dobbiamo essere soddisfatti del lavoro svolto dai nostri parlamentari. L’approvazione della legge sul lavoro agile o smart working all’interno della più ampia norma sulle professioni – Jobs Act degli autonomi – è certamente un passo in avanti per le aziende e i lavoratori, e più in generale per la competitività e il benessere.

Tuttavia, la sfida più complessa relativa alle trasformazioni che stanno radicalmente travolgendo il mercato del lavoro e più in generale la nostra società, resta senza risposte. Per il vero non vi è nemmeno una discussione politica, e questo è un fatto molto grave.

L’evoluzione tecnologica, la comparsa di nuovi settori produttivi e di nuove professioni, oltre che i cambiamenti nei costumi, hanno favorito l’implementazione di nuove dinamiche, di modelli e di relazioni organizzativi. Ciò permette alle imprese di realizzare maggiore efficacia ed efficienza (un risparmio economico, per dirla tutta), e migliore benessere aziendale, che è poi uno dei principi guida delle organizzazioni contemporanee. Così, anche i lavoratori dovrebbero guadagnarci in termini di flessibilità e benessere personale, senza subire delle discriminazioni, soprattutto di natura economica.

In questo contesto lo smart working si configura come una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato», in altre parole un accordo tra le parti che si caratterizza per l’uso della tecnologia e che può svolgersi in parte, anche all’esterno dell’azienda. La pratica si sta diffondendo rapidamente soprattutto tra le grandi imprese, come ci raccontano le diverse ricerche in materia, coinvolgendo già quasi trecentomila lavoratori. Il Parlamento ha centrato il problema fornendo una buona risposta. Come stiamo sperimentando, tuttavia, le dinamiche del mondo del lavoro sono molto più complesse. Un numero sempre maggiore di lavoratori saranno autonomi (il 40% negli Usa entro il 2020). Nel corso della vita cambieranno tra le 5 e le 7 mansioni, almeno. Le macchine le renderanno obsolete. Noi tutti saremo così costretti ad accontentarci di mansioni meno qualificate e retribuite (con il rischio di abbassare la produttività) o dovremo tornare a riqualificarci.

Il lavoratore del futuro quindi continuerà a entrare e uscire dal mercato del lavoro.
Chi ci sosterrà nella fase di riqualificazione? Chi farà in modo che non dovremo, come in parte si sta registrando oggi, accettare mansioni che richiedono meno competenze, e che quindi comportano una produttività e salari più bassi, con tutte le conseguenze che può comportare? Le risposte che l’impianto normativo più ampio del Jobs Act degli autonomi ci consegna non sono sufficienti. Il Parlamento ha provato coraggiosamente, bisogna riconoscerlo, a garantire maggiori tutele ai lavoratori autonomi in fatto di formazione, salute, sicurezza, riconoscendo un progressivo aumento del lavoro autonomo. Ma ha mancato di cogliere il problema nella sua totalità, e cioè discutendo dell’impatto della formazione, della tecnologia e della globalizzazione non solo sul lavoro da svolgere ma segnatamente su quello da scoprire, e poi dell’impatto dell’automazione, e delle forme di welfare, incluso il reddito di cittadinanza per i più deboli.

Non è una sfida semplice, che forse questa classe dirigente non è pronta ad affrontare, così come del resto, faticano in Europa e anche negli Stati Uniti. Almeno lì un dibattito c’è. Dovremmo avviarlo, seriamente, e seguendo il metodo sperimentale, anche qui da noi. Non servono rivoluzioni, sono sufficienti piccoli passi, ma costanti.

 

La Stampa_11_05_17

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PNR